Come le banche centrali affrontano la sfida dell’inflazione bassa
Marjolin Lecture tenuta da Mario Draghi, Presidente della BCE, alla Conferenza SUERF organizzata dalla Deutsche Bundesbank, Francoforte, 4 febbraio 2016
Robert Marjolin è stato una figura centrale nella nascita dell’Unione economica e monetaria. Quando fu firmato il Trattato di Roma nel 1957, gli obiettivi della Comunità economica europea si limitavano sostanzialmente alla creazione di un’unione doganale e di un mercato agricolo comune. Per nessuno dei due si riteneva necessaria un’integrazione monetaria. Solo con il cosiddetto “Memorandum Marjolin” del 1962 emerse il riconoscimento del legame tra mercato unico e moneta unica ed ebbe avvio una discussione seria sull’integrazione monetaria europea.
Oggi, a oltre sessant’anni da allora, l’integrazione monetaria nell’area dell’euro è al tempo stesso completa e sicura. Tuttavia, la politica monetaria è posta di fronte a numerose sfide che, pur non avendo cambiato il nostro mandato, hanno modificato il modo in cui lo assolviamo.
Per comprendere come abbiamo affrontato queste sfide, è utile dividerle in due categorie.
La prima include le sfide comuni a tutte le banche centrali delle economie avanzate, che sono connesse al contesto di bassa inflazione a livello internazionale.
La seconda è rappresentata da quelle specifiche dell’area dell’euro, che sono collegate al nostro particolare contesto istituzionale.
Le sfide comuni
L’interrogativo più importante per tutte le principali banche centrali è al momento il seguente: possiamo ancora assolvere il nostro mandato di mantenere la stabilità dei prezzi? Nelle economie avanzate l’inflazione è bassa e questa situazione perdura da qualche tempo. Inoltre in taluni casi le aspettative di inflazione a lungo termine, basate sui prezzi di mercato, restano inferiori alle nostre definizioni numeriche del concetto di stabilità dei prezzi. Ciò ha indotto alcuni a chiedersi se abbia senso che le banche centrali attuino politiche espansive per raggiungere i loro obiettivi di inflazione. Combattono un’inutile battaglia contro forze che sfuggono al loro controllo?
Vi sono sostanzialmente tre argomentazioni a favore di una politica monetaria che non reagisca di fronte all’attuale contesto di bassa inflazione.
Le cause dell’inflazione eccessivamente bassa
Secondo la prima argomentazione, l’inflazione bassa è sempre più dovuta a fattori strutturali nell’economia mondiale che non possono essere affrontati con azioni di stimolo monetario sul piano interno. Di conseguenza, si sostiene, non è più realistico considerare come basso e stabile un tasso di inflazione attorno al 2% e le banche centrali dovrebbero pertanto rivedere al ribasso i loro obiettivi.
Se fosse accurata, tale argomentazione costituirebbe una critica molto sostanziale del mandato delle banche centrali. Dopo tutto, la decisione di assegnare a queste ultime obiettivi di stabilità dei prezzi lasciandole libere di scegliere in modo indipendente come perseguirli si basava sull’idea che l’inflazione fosse sempre, in ultima istanza, un fenomeno monetario e che potesse quindi essere in ogni caso controllata nel medio periodo da un’autorità monetaria impegnata in questo senso.
È dunque vero che i mutamenti strutturali osservati oggi esercitano un impatto permanente sui livelli di inflazione di lungo periodo?
Uno evocato spesso a questo riguardo è il cambiamento demografico. Benché preluda senz’altro a importanti mutamenti economici, il suo impatto sull’inflazione non è chiaro ex ante. Potrebbe esercitare spinte al ribasso sui prezzi se la domanda aggregata diminuisce più dell’offerta aggregata. È però altrettanto possibile che generi pressioni al rialzo: secondo l’ipotesi del ciclo di vita, in un contesto di invecchiamento della popolazione gli anziani finiscono per ridurre il risparmio e aumentare i consumi [1]. La prevalenza di uno dei due effetti dipende da una serie di fattori. Sembra in ogni caso improbabile che questo cambiamento riesca a spiegare il motivo per cui l’inflazione si colloca oggi su livelli bassi in economie avanzate con profili demografici molto diversi.
Inoltre, quand’anche l’invecchiamento demografico dovesse determinare un periodo di disinflazione – ad esempio per il tramite di squilibri di risparmio e investimento – non vi è alcuna ragione per cui questo dovrebbe comportare un tasso di inflazione permanentemente inferiore. Un eccesso di risparmio si tradurrebbe semplicemente in un abbassamento del tasso di interesse reale di equilibrio necessario per assicurare la stabilità dei prezzi e la banca centrale dovrebbe tenerne conto nella sua politica monetaria. In altri termini gli effetti dell’invecchiamento ci imporrebbero di correggere i nostri strumenti, non i nostri obiettivi.
Altri mutamenti strutturali sono altresì percepiti da alcuni come all’origine di un impatto di lungo periodo sull’inflazione. Uno di questi è l’inversione del ciclo di lungo periodo dei prezzi delle materie prime. Un altro è il cambiamento tecnologico, e in particolare il commercio elettronico, che accrescendo la trasparenza di prezzo e la concorrenza tra fornitori e distributori può mantenere i prezzi su livelli bassi. Un terzo è la globalizzazione, che può far aumentare l’importanza dei prezzi mondiali rispetto a quelli interni e rendere più difficile per le economie avanzate evitare di importare disinflazione dall’estero [2].
Ciascuno di questi mutamenti potrebbe influire sul tasso di inflazione. Ciò è innegabile. D’altro canto, nulla sta a indicare che tali effetti siano permanenti. È ad esempio probabile che variazioni permanenti dell’offerta di energia esercitino un impatto permanente sul livello dei prezzi. Tuttavia, a un certo punto la disinflazione dei corsi energetici deve invertirsi, se non altro a causa degli effetti base. Analogamente, l’eventuale effetto di contenimento dei prezzi esercitato dal commercio elettronico perdurerà soltanto fino a che la diffusione di quest’ultimo non si sarà stabilizzata. Inoltre una minore inflazione importata come conseguenza della globalizzazione dovrebbe in ultima istanza determinare prezzi più elevati altrove in quanto il reddito disponibile aumenta e i livelli dei salari e degli altri costi si uniformano tra paesi.
Non esiste quindi alcun motivo per cui tali cambiamenti strutturali debbano rendere irraggiungibili i nostri attuali obiettivi di stabilità dei prezzi. Essi possono generare forze disinflazionistiche a livello mondiale, ma queste sono di natura transitoria. Se tuttavia dette forze esercitassero un impatto persistente sull’inflazione, vale a dire se si radicassero nella dinamica dell’inflazione e nelle aspettative di inflazione, allora questo potrebbe incidere sul nostro obiettivo. Non si tratta però di un problema strutturale, bensì di una questione di credibilità della politica monetaria come ancora delle aspettative di inflazione.
Ciò mi porta alla seconda argomentazione contro il ricorso a politiche monetarie attive.
La risposta a un contesto di inflazione eccessivamente bassa
A giudizio di alcuni, finché siamo interessati da shock principalmente positivi dal lato dell’offerta mondiale non abbiamo bisogno di reazioni eccessive da parte delle banche centrali. Possiamo semplicemente ridefinire l’orizzonte di medio periodo lungo il quale mantenere la stabilità dei prezzi e “stare a guardare” fino a quando l’inflazione si sarà riportata sul nostro obiettivo. Di fatto il motivo per il quale le banche centrali non definiscono il medio periodo in termini di durata è che l’orizzonte di intervento dipende dalla natura dello shock.
Questo punto di vista è di per sé corretto. Le banche centrali di norma si astengono dall’intervenire a fronte di shock dal lato dell’offerta aventi effetti opposti sul prodotto e sull’inflazione, per evitare reazioni eccessive che intensificherebbero l’impatto sulla crescita in una direzione o nell’altra. Ciò potrebbe anche valere per una successione di shock dal lato dell’offerta, come nel caso dei forti cali dei corsi petroliferi osservati di recente. Ciascuno shock dovrebbe, in linea di principio, essere di breve durata e senza effetti persistenti sull’inflazione.
Tuttavia, poiché gli andamenti dell’inflazione presentano sempre una componente retrospettiva, più a lungo i tassi rimangono contenuti più aumenta il rischio che l’inflazione non si riporti automaticamente sull’obiettivo. Nello specifico, se gli operatori iniziano a focalizzarsi sugli andamenti recenti dell’inflazione più che sull’obiettivo di inflazione, questo influisce sui loro benchmark per le decisioni in materia di fissazione di salari e prezzi. Succede quindi che l’inflazione bassa si trasmette alle aspettative di inflazione e genera effetti di secondo impatto.
In tale situazione, anche uno shock inizialmente positivo dal lato dell’offerta può trasformarsi in uno negativo dal lato della domanda. Il calo delle aspettative di inflazione fa aumentare i tassi di interesse reali, producendo un inasprimento monetario ingiustificato. Inoltre l’inflazione inaspettatamente bassa accresce l’onere del debito in termini reali e questo incide negativamente sulla domanda aggregata per la diversa propensione ai consumi e agli investimenti di mutuatari e prestatori. Prodotto e inflazione tornano così a muoversi nella stessa direzione, ma stavolta verso il basso.
È questo il motivo per cui, nel contesto di un periodo prolungato di bassa inflazione, la politica monetaria non può essere allentata a fronte di una successione di shock dal lato dell’offerta. L’adozione di un atteggiamento attendista e l’allungamento dell’orizzonte di policy comportano dei rischi e in particolare la possibilità di un disancoraggio durevole delle attese che determina tassi di inflazione persistentemente inferiori, una situazione che richiederebbe un orientamento molto più accomodante della politica monetaria per essere invertita. Da questo punto di vista i rischi di interventi eccessivamente tardivi sono superiori a quelli di azioni troppo precoci.
In sintesi, anche di fronte a shock mondiali protratti, è sempre la politica monetaria a determinare la stabilità dei prezzi nel medio periodo. Se non ci “arrendiamo” alla bassa inflazione, e non è senz’altro nelle nostre intenzioni, nello stato stazionario il tasso tornerà su livelli coerenti con il nostro obiettivo. Se invece capitoliamo di fronte alle “inesorabili forze disinflazionistiche”, o invochiamo lunghi periodi di transizione per la variazione dei tassi di inflazione, di fatto non facciamo che perpetuare il quadro di disinflazione.
Questo è il chiaro insegnamento della storia monetaria e in particolare dell’esperienza degli anni ’70. All’epoca molte autorità ritenevano che livelli di inflazione persistentemente elevati fossero strutturali e che le banche centrali avessero pochi strumenti per abbassarli. Per esempio a maggio 1971, quando Arthur Burns era Presidente, nella Staff Presentation ufficiale al Federal Open Market Committee (FOMC) si affermava, al pari di alcuni dei nostri critici oggi: “Si pone il problema di capire se la politica monetaria possa o debba fare qualcosa per contrastare un tasso di inflazione residua persistente [...]. La risposta, a mio giudizio, è negativa. [...] Sono del parere che dovremmo considerare i continui aumenti dei costi come un problema strutturale non gestibile con misure macroeconomiche” [3].
Analogamente, nella sua prima riunione con il FOMC di marzo 1978, il Presidente della Federal Reserve William Miller osservò: “l’inflazione sarà lasciata alla Federal Reserve e questa sarà una brutta notizia. [...] Un programma efficace di abbassamento del tasso di inflazione deve andare oltre la politica monetaria ed essere integrato da programmi volti ad accrescere la concorrenza e correggere i problemi strutturali” [4] . Solo quando Paul Volcker fu nominato Presidente nel 1979 e accorciò l’orizzonte di policy la Federal Reserve si assunse la responsabilità di tenere sotto controllo l’inflazione che, dopo avere raggiunto un massimo attorno al 15% a marzo 1980, scese sotto il 3% nel 1983.
Alcuni sostengono che la situazione attuale è diversa e che, se Volcker ha potuto innalzare i tassi al 20% per domare l’inflazione, le banche centrali impegnate a contrastare la disinflazione sono limitate dalla soglia zero dei tassi di interesse. L’esperienza giapponese dopo lo scoppio della bolla immobiliare agli inizi degli anni ’90 viene spesso addotta come dimostrazione.
Di fatto il caso giapponese non fa altro che rafforzare l’importanza del pieno impegno delle autorità. Finché la volontà della Banca del Giappone di portare il tasso di inflazione su livelli bassi positivi non è stata chiara, l’inflazione effettiva e le aspettative di inflazione sono rimaste in area deflazionistica. Da quando l’impegno a raggiungere un tasso di inflazione del 2% è stato segnalato, invece, l’inflazione di fondo è salita da un livello inferiore al -0,5% nel 2012 a uno prossimo all’1%. Evidentemente il livello attuale è ancora inferiore all’obiettivo del 2%, ma gli shock al ribasso sui prezzi colpiscono il Giappone al pari di tutte le altre economie avanzate.
Esistono ormai riscontri abbondanti del fatto che, se abbiamo la volontà di raggiungere il nostro obiettivo, disponiamo degli strumenti per farlo. La BCE ha tra gli altri dato prova del fatto che la soglia inferiore per i tassi di riferimento, ovunque si collochi, non corrisponde allo zero. Abbiamo altresì dimostrato la possibilità di utilizzare strumenti non convenzionali per fornire uno stimolo monetario anche senza modificare di molto il tasso overnight, producendo in ogni caso effetti equivalenti. A titolo di esempio, le misure non convenzionali adottate dalla BCE dall’estate del 2014 hanno prodotto un effetto di trasmissione equivalente a un abbassamento di 100 punti base dei tassi in condizioni “normali”.
Le banche centrali non hanno quindi motivo di rinunciare al loro mandato solo perché siamo tutti colpiti dalla disinflazione a livello internazionale. Anzi, se tutte le banche centrali cedono a questa logica la rendono auto-avverante. Se d’altro canto ci adoperiamo tutti per assolvere il nostro mandato, le forze disinflazionistiche a livello mondiale possono essere in ultima istanza domate.
I costi della lotta contro l’inflazione troppo bassa
Alcuni sostengono tuttavia che, anche se le banche centrali possono contrastare le forze disinflazionistiche a livello mondiale, nel far questo causano più danni che benefici. In particolare, l’adozione di politiche monetarie espansive sul piano interno determina un accumulo di debito in valuta eccessivo oppure bolle dei prezzi delle attività all’estero, specie nei mercati emergenti. Inoltre, il successivo riassorbimento di questi squilibri finanziari indebolisce la crescita mondiale e non fa che accentuare la disinflazione su scala internazionale. Questa è la terza argomentazione.
Ma quale sarebbe, allora, l’alternativa? Se le banche centrali delle economie avanzate venissero meno al loro mandato, i paesi emergenti ne trarrebbero un beneficio? Ciò avrebbe maggiori possibilità di contribuire alla crescita mondiale? Chiaramente, la risposta è negativa. La stabilità delle grandi economie è vitale sia per i rispettivi partner commerciali sia per l’economia mondiale e l’allontanamento della politica monetaria da questo obiettivo in un momento in cui le nostre economie sono ancora fragili non sarebbe nel loro interesse. Nell’area dell’euro questo vale particolarmente per le economie a noi vicine, che esportano verso l’area circa il 50% dei loro beni e servizi.
Di fatto, quando le banche centrali hanno seguito la strada alternativa di una politica monetaria indebitamente restrittiva in un contesto di ripresa incipiente, i risultati non sono stati incoraggianti. Notoriamente, la Federal Reserve ha iniziato a innalzare gli obblighi di riserva nel 1936-1937 per motivi in parte riconducibili ai timori di una nuova bolla azionaria, ma ha dovuto fare marcia indietro l’anno successivo quando l’economia è tornata in recessione. Si tratta della stessa esperienza vissuta da alcune banche centrali negli ultimi anni: l’innalzamento dei tassi volto a controbilanciare i rischi per la stabilità finanziaria ha minato il mandato primario e alla fine ha richiesto il mantenimento dei tassi su livelli inferiori per un periodo più lungo.
Ciò sta a indicare che il cosiddetto “problema di assegnazione” tra la politica monetaria e la stabilità finanziaria a livello interno dovrebbe valere anche a livello mondiale. La politica monetaria non dovrebbe cercare di bilanciare obiettivi opposti: è ottimale per tutti se adempie al suo mandato. Gli eventuali timori per la stabilità finanziaria che questo potrebbe suscitare devono essere affrontati da altre politiche più adatte allo scopo. Di fatto sono disponibili diverse leve politiche.
I paesi possono migliorare la regolamentazione e la vigilanza finanziaria per accrescere la tenuta dei rispettivi sistemi finanziari di fronte agli shock esterni. Hanno la possibilità di adeguare le politiche di bilancio e di adottare misure macroprudenziali. L’evidenza sta a indicare che tali politiche possono essere efficaci: i paesi emergenti hanno livelli di sensibilità agli andamenti finanziari mondiali molto diversi a seconda dell’assetto delle politiche economiche [5]. Disponiamo inoltre di alcuni riscontri aneddotici del fatto che le misure macroprudenziali stanno funzionando nelle economie asiatiche e che riescono in particolare a raffreddare il settore immobiliare.
Infine, a parte queste considerazioni generali, vale la pena di chiedersi se tali argomentazioni riguardo alle ripercussioni della politica monetaria valgano di fatto per l’area dell’euro. Se consideriamo ad esempio le ricadute sui prezzi delle attività non troviamo riscontri del fatto che l’annuncio del Programma di acquisto di attività (PAA) abbia fatto impennare flussi di portafoglio verso le economie emergenti. L’evidenza empirica sta anzi a indicare che gli investitori internazionali hanno riequilibrato i loro portafogli riducendo il peso dei mercati obbligazionari e azionari dei paesi emergenti a vantaggio di quelli obbligazionari delle economie avanzate, specie nell’area dell’euro, come reazione al varo del PAA [6].
Se poi consideriamo il debito in valuta estera, i bassi tassi di interesse nell’area dell’euro hanno determinato una crescita significativa dei collocamenti di titoli di debito denominati nella moneta unica al di fuori dell’area negli ultimi due anni, ma le emissioni in euro continuano a costituire appena un quarto circa dei collocamenti obbligazionari internazionali a fronte dei due terzi rappresentati da quelle in dollari. Per giunta, i recenti collocamenti obbligazionari esteri in euro sono dominati da società statunitensi del segmento investment grade e, nei mercati emergenti, da emittenti con rating elevati. I riscontri di ripercussioni negative e di rischi per la stabilità finanziaria appaiono pertanto limitati.
Le sfide specifiche
Pertanto, anche di fronte a shock mondiali comuni, le banche centrali hanno la capacità di adempiere al loro mandato. Tuttavia, nell’area dell’euro questo richiede una risposta di politica monetaria diversa. Ciò è dovuto al fatto che noi ci confrontiamo anche con una seconda serie di sfide che sono in larga parte specifiche nostre e che costituiscono il risultato della nostra struttura istituzionale: condurre la politica monetaria in un mercato bancario e dei capitali segmentato e in assenza di una singola autorità fiscale come controparte per l’intera area. Vi sono due tipologie di sfide in particolare che emergono da questa situazione.
La trasmissione dell’orientamento monetario
La prima riguarda la trasmissione della politica monetaria. Molte banche centrali si sono trovate di fronte a disfunzioni nel meccanismo di trasmissione durante la crisi. Questo è il motivo per cui ad esempio la Federal Reserve ha iniziato a intervenire nei mercati dei mutui cartolarizzati (mortgage-backed securities) o la Bank of England ha varato il suo programma di finanziamenti per la concessione di prestiti (Funding for Lending). È chiaro tuttavia che nell’area dell’euro tali disfunzioni sono state maggiori. Inoltre, hanno avuto una dimensione regionale ben distinta che non era visibile nelle altre giurisdizioni.
La nostra sfida specifica nasce dall’avere un mercato bancario e dei capitali incompleto, il che porta a una minore ripartizione dei rischi. Rispetto a un mercato pienamente integrato, i portafogli di attività private nell’area dell’euro presentano una minore diversificazione geografica e questo concentra l’effetto di congiunture negative locali. I mercati del credito sono meno integrati ed è pertanto più difficile per gli operatori mutuare fondi altrove nell’Unione per attutire tali shock. In aggiunta le istituzioni per la ripartizione del rischio sovrano tra paesi sono meno sviluppate e questo colloca l’intero onere della gestione degli effetti sui singoli Stati.
Questo ha due conseguenze per la trasmissione della politica monetaria. In primo luogo comporta che alcuni dei principali canali di trasmissione, specificamente il canale dei prestiti bancari e quello del bilancio, sono più facilmente soggetti a turbative in caso di shock importanti. In secondo luogo, poiché il rischio privato e il rischio sovrano sono collegati a livello nazionale, la frammentazione finanziaria avviene lungo i confini nazionali. Ciò intralcia l’efficacia della politica monetaria nelle regioni dove la sua azione di stimolo è più necessaria.
Nulla di tutto questo vuol dire che non possiamo adempiere al nostro mandato. Significa però che dobbiamo concepire i nostri strumenti in modo da compensare questa situazione. Ecco perché, durante buona parte della crisi, le nostre misure sono state volte anche ad affrontare gli ostacoli alla trasmissione ordinata della nostra politica.
Agli inizi della crisi ciò ha comportato la necessità di sopperire al prosciugamento del mercato interbancario, anche alle scadenze più lunghe, per garantire il flusso di liquidità tra paesi. In seguito abbiamo eliminato i rischi di ridenominazioni ingiustificate dai mercati del debito sovrano, contribuendo ad attenuare il legame tra banche e debitori sovrani. Più di recente abbiamo varato un pacchetto di misure di allentamento creditizio inteso fra l’altro ad assicurare che la riduzione della leva finanziaria nel settore bancario non produca una dispersione eccessiva nei tassi sui prestiti tra paesi. L’evidenza sta a indicare che tutte queste misure si sono dimostrate efficaci [7].
È chiaro in ogni caso che i rischi di frammentazione possono essere definitivamente rimossi solo affrontandone le determinanti istituzionali. Per questo la creazione dell’Unione bancaria, che è l’argomento della conferenza di oggi, ha costituito un’aggiunta così fondamentale all’Unione monetaria.
Il Meccanismo di vigilanza unico fornisce il quadro di riferimento per un mercato bancario più integrato, che sarebbe meno soggetto a frammentazione in caso di tensioni. Il Meccanismo di risoluzione unico agevola una più ampia ripartizione dei rischi tra paesi. Infine, l’impegno a costituire un’Unione dei mercati dei capitali costituisce il primo passo verso una maggiore diversificazione geografica, specialmente nelle partecipazioni azionarie estere.
Ciò che tuttavia continua a mancare è un accordo sul terzo pilastro dell’Unione bancaria, l’assicurazione sui depositi, che costituisce una componente essenziale di una vera moneta unica. Per questo motivo, la proposta della Commissione di istituire un regime europeo di assicurazione dei depositi costituisce uno sviluppo positivo. Da un lato si prefigge l’obiettivo ambizioso di introdurre un sistema di protezione dei depositanti davvero europeo, sostenendo la creazione di un mercato interno dei depositi nei quali la fungibilità di questi ultimi è assicurata a prescindere dalle giurisdizioni e la fiducia nei depositi è resa uniforme.
Dall’altro è stato concepito in modo realistico e prevede una serie di tutele contro il rischio di moral hazard in modo da evitare che la ripartizione dei rischi si traduca in un trasferimento degli stessi. Le misure di riduzione e quelle di ripartizione dei rischi sono due facce della stessa medaglia e vanno attuate in parallelo: sono al tempo stesso essenziali per tutelare la stabilità del settore bancario europeo e tali da assicurare la trasmissione omogenea della nostra politica monetaria.
L’espansione dell’orientamento monetario
La seconda sfida specifica che abbiamo affrontato nell’area dell’euro si è presentata quando è stato necessario espandere il nostro orientamento monetario e più specificamente quando siamo passati dai tassi di interesse agli acquisti di attività tramite il PAA come strumento principale di politica monetaria.
In parte, gli acquisti su larga scala di attività finanziarie sono intesi a ridurre il tasso privo di rischio eliminando il rischio di duration dal mercato delle obbligazioni sovrane. Nell’area dell’euro, tuttavia, non abbiamo un unico tasso privo di rischio in quanto non vi è un unico emittente sovrano che funge da benchmark. Né esiste un mercato nazionale in grado di fungere da sostituto, non solo a causa dei vincoli di volume ma anche perché nessun titolo pubblico nell’area dell’euro è realmente privo di rischio. Il divieto di finanziamento monetario comporta che tutte le obbligazioni sovrane presentano una componente di rischio di credito.
In questo contesto gli acquisti di attività delle dimensioni che riteniamo appropriate devono essere inevitabilmente effettuati in più mercati. Ciò vuol dire che le operazioni di politica monetaria possono involontariamente incidere sull’allocazione del credito tra regioni e tipologie di mutuatari. Questo non è insolito in quanto tutte le politiche monetarie hanno delle conseguenze allocative e non crea nemmeno un limite per l’assolvimento del nostro mandato. Richiede tuttavia che ci adoperiamo per mitigare queste conseguenze fatto salvo il vincolo di conseguire il nostro obiettivo di stabilità dei prezzi. Ciò può avvenire in due modi.
Il primo consiste nel concepire i nostri strumenti di politica monetaria in modo tale da ridurre al minimo le distorsioni. L’abbiamo fatto nel quadro del PAA intervenendo principalmente nelle classi di attività più “standardizzate”, vale a dire i titoli di Stato dei singoli paesi, e ripartendo gli interventi in modo proporzionato tra le varie giurisdizioni. Questo porta di fatto a costruire un portafoglio diversificato che copre l’intera area dell’euro.
In secondo luogo è possibile ridurre gli effetti allocativi anche accrescendo l’integrazione dei mercati nei quali interveniamo, in particolare in quello dei titoli di Stato. A questo scopo un quadro di bilancio robusto e applicato in modo credibile ridurrebbe il rischio intrinseco nei singoli titoli di Stato nell’area dell’euro e questo renderebbe a sua volta più omogeneo l’impatto degli interventi nei vari mercati.
Tuttavia non vi è alcun dubbio che, se avessimo bisogno di adottare una politica più espansiva, il rischio di effetti collaterali non intralcerebbe il nostro cammino. Puntiamo sempre a limitare le distorsioni causate dalla nostra politica, ma ciò che viene prima di tutto è l’obiettivo di stabilità dei prezzi. Questa è l’implicazione del principio di predominanza monetaria, che è sancito nel Trattato e che conferisce credibilità alla politica monetaria.
La predominanza monetaria significa che possiamo, e di fatto dovremmo, riconoscere e mettere in evidenza tutte le conseguenze, desiderate o indesiderate, delle nostre operazioni di politica monetaria. Vuol dire anche, tuttavia, che non dovremmo mai mancare di adempiere al nostro mandato solo per via di queste conseguenze. Questo equivarrebbe a ridefinire il mandato conferitoci per legge, cosa che non abbiamo facoltà di fare.
Conclusioni
Riassumendo, vi sono oggi forze nell’economia mondiale che concorrono a mantenere bassa l’inflazione e che potrebbero rallentarne il ritorno sul nostro obiettivo. Non c’è tuttavia ragione per cui debbano portare a un tasso di inflazione permanentemente più basso.
Ciò che importa è che le banche centrali agiscano entro i limiti del loro mandato per adempiere al mandato stesso. Nell’area dell’euro questo potrebbe dare origine a sfide diverse da quelle che si presentano in altre giurisdizioni. Tali sfide possono tuttavia essere mitigate e non giustificano l’inerzia.
[1]Gran parte degli studi empirici secondo i quali l’invecchiamento demografico ha effetti disinflazionistici si è focalizzata sul Giappone, dove il passaggio da una società che invecchia a una invecchiata è tra i più rapidi (cfr. ad esempio Jong-Won Yoon, Jinill Kim e Jungjin Lee (2014), “Impact of Demographic Changes on Inflation and the Macroeconomy”, IMF Working Papers, n.14/210, Fondo monetario internazionale). Tuttavia, in un Working Paper recente della BRI (2015) Juselius e Takats contraddicono l’opinione prevalente: esaminando le correlazioni a bassa frequenza, essi rilevano che una quota maggiore di coorti giovani o anziane è associata a un’inflazione più elevata e una maggiore di coorti in età lavorativa è invece correlata a tassi di inflazione inferiori. Ciò evidenzia la difficoltà di quantificare l’impatto di questo fattore strutturale sull’inflazione. Cfr. Mikael Juselius ed Elod Takats (2015), “Can demography affect inflation and monetary policy?”, BIS Working Papers, n. 485, Banca dei regolamenti internazionali.
[2]L’inflazione come fenomeno mondiale è stata documentata ad esempio da Matteo Ciccarelli e Benoit Mojon, (2010), “Global Inflation”, The Review of Economics and Statistics, 92:524-535.
[3]Riunione del Federal Open Market Committee, Memorandum of Discussion, 11 maggio 1971.
[4]Riunione del Federal Open Market Committee, trascrizione, 21 marzo 1978.
[5]Cfr. Ben Bernanke (2015), “Federal Reserve Policy in an International Context”, contributo presentato alla 16ª Jacques Polak Annual Research Conference ospitata dal Fondo monetario internazionale, 5-6 novembre 2015.
[6]Cfr. Johannes Gräb e Georgios Georgiadis (2015), “Global Financial Market Impact of the Announcement of the ECB’s Extended Asset Purchase Programme”, Working Paper n. 232 del Federal Reserve Bank of Dallas Globalization and Monetary Policy Institute, marzo.
[7]Per riscontri dell’efficacia delle misure adottate dalla BCE a partire dall’estate 2014, cfr. Politica monetaria: passato, presente e futuro, intervento di Mario Draghi al Congresso bancario europeo, Francoforte sul Meno, 20 novembre 2015.
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