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Intervista con Nikkei

Intervista con Fabio Panetta, membro del Comitato esecutivo della BCE, condotta da Jun Ishikawa

26 maggio 2021

Come valuta la situazione economica attuale nell’area dell’euro? Secondo Philip Lane siamo a un punto di svolta...

La lezione che abbiamo appreso lo scorso anno è che dobbiamo evitare di cantare vittoria prima del tempo. In estate, a fronte di primi dati positivi, molti festeggiarono la fine della pandemia. Sappiamo come è andata a finire: l’economia è caduta in una doppia recessione.

Oggi le prospettive dell’economia globale sono in miglioramento. Le nostre analisi prefigurano un recupero nella seconda metà dell’anno, sostenuto dall’accelerazione delle vaccinazioni, dal rafforzamento della domanda mondiale e, in Europa, dall’impiego dei fondi del programma NextGenerationEU. La ripresa del turismo – che speriamo duri più dei pochi mesi dello scorso anno – sarà il simbolo di un graduale ritorno alla normalità.

Ma ci sono due fatti da tenere a mente. Innanzitutto, la ripresa rimane incompleta: il PIL dell’area dell’euro è tuttora inferiore del 5,5 per cento rispetto al livello pre-crisi e ancor di più rispetto al trend di crescita precedente la pandemia. Ciò significa che milioni di posti di lavoro persi non sono stati recuperati.

In secondo luogo, l’economia è ancora dipendente dalle politiche monetarie e fiscali: siamo lontani dal momento in cui la ripresa sarà in grado di autoalimentarsi. Ad esempio, i programmi di sostegno pubblico all’occupazione continuano a svolgere un ruolo determinante: nell’area dell’euro la quota di lavoratori disoccupati, scoraggiati o che beneficiano di questi programmi è del 17 per cento, il doppio del tasso di disoccupazione rilevato dalle statistiche ufficiali.

Ci vorrà tempo per capire come l’economia uscirà da questa terribile pandemia e per constatarne tutti i danni. Vi è ancora molta incertezza, come emerge sia dalla cautela adottata dai consumatori nel definire i programmi di spesa sia dall’elevato tasso di risparmio precauzionale. Il sostegno pubblico ai posti di lavoro consente in qualche modo di alleviare i problemi di oggi, ma non può cancellare le preoccupazioni dei lavoratori circa quelli di domani.

Una uscita prematura dalle attuali politiche economiche espansive rischierebbe di soffocare la ripresa prima ancora che l’economia torni a camminare con le proprie gambe, accrescendo l’incertezza e comprimendo la domanda.

Dobbiamo analizzare con attenzione i dati che si renderanno via via disponibili, al fine di verificare che l’uscita dalla crisi rifletta una ripresa robusta e duratura. Il divario tra i valori correnti e quelli di equilibrio dell’attività produttiva, dell’occupazione e dell’inflazione (i cosiddetti output gap, employment gap e inflation gap) sono gli indicatori fondamentali per stabilire quando avremo davvero superato la crisi. I divari si stanno restringendo, ma sono lontani dall’essere soddisfacenti.

Quindi non siamo ancora fuori dal tunnel…

No.

Come vede le prospettive dell’inflazione? L’inflazione sui dodici mesi dell’area dell’euro è aumentata all’1,6 per cento ad aprile. Sembrerebbe in aumento. Non è così?

L’aumento dell’inflazione che stiamo osservando è transitorio. È determinato dai rincari delle materie prime a livello mondiale, da effetti di natura statistica e dall’aumento delle aliquote IVA in Germania, dopo il taglio temporaneo nel 2020. L’incremento sarà di breve durata: secondo le nostre valutazioni si esaurirebbe alla fine di quest’anno, in quanto scollegato dall’evoluzione dell’economia domestica e non in grado di autoalimentarsi. L’inflazione di fondo – che riflette in ampia misura l’evoluzione dei prezzi dei servizi, a sua volta influenzata soprattutto dalle dinamiche economiche interne – resta bassa, intorno allo 0,7 per cento ad aprile.

Su un orizzonte più esteso, le proiezioni che abbiamo pubblicato a marzo prefigurano nel medio termine una inflazione assai contenuta, dell’1,2 per cento nel 2022 e dell’1,4 nel 2023.

Non dobbiamo basare le nostre valutazioni sugli andamenti dell’economia statunitense. Non ci aspettiamo un aumento della domanda e dell’occupazione altrettanto sostenuto, in grado di generare pressioni forti e durature sulla dinamica dei prezzi. Le indagini recenti sull’inflazione sono in linea con questo quadro.

Mi preoccupa il fatto che l’inflazione rimarrebbe ben al di sotto del 2 per cento lungo tutto il nostro orizzonte di riferimento. Ciò può minare la nostra credibilità, dopo anni in cui l’inflazione è rimasta al di sotto del nostro obiettivo. Inoltre, un’inflazione troppo bassa aggraverebbe il costo reale del debito, in una fase in cui i debiti pubblici e privati stanno aumentando per contrastare la caduta dell’attività produttiva causata dalla pandemia.

Perché serve così tanto tempo per riportare l’inflazione all’obiettivo del 2 per cento? Possiamo parlare di una “sindrome giapponese”?

Il parallelo tra Europa e Giappone non è corretto. I problemi del Giappone derivano dal fatto che le aspettative di inflazione sono saldamente ancorate a livelli troppo bassi, rendendo assai difficile risollevarle. Non è quello che osserviamo da noi. Le aspettative di inflazione a lungo termine desunte dai mercati finanziari sono attualmente pari a circa l’1,6 per cento: un valore non ottimale, ma che indica una situazione molto diversa da quella del Giappone.

L’Europa ha registrato una serie di forti shock negativi. Prima la crisi finanziaria. Poi la crisi dell’euro. E ora la pandemia. Ma la Banca centrale europea (BCE) può spingere l’inflazione verso il suo obiettivo: abbiamo tutti gli strumenti necessari per portarla al 2 per cento. E il Consiglio direttivo concorda nel ritenere insoddisfacenti le attuali prospettive dell’inflazione.

Nel medio periodo il livello dell’inflazione è determinato dalla banca centrale. Dobbiamo preservare la nostra credibilità, continuando a intervenire con forza finché non avremo raggiunto il nostro obiettivo.

Vorrei passare alla politica monetaria. La BCE dovrebbe continuare anche dopo giugno a effettuare acquisti di obbligazioni nell’ambito del Programma di acquisto per l’emergenza pandemica (pandemic emergency purchase programme, PEPP) al ritmo attuale?

Il PEPP mira a mantenere condizioni di finanziamento favorevoli, al fine di sostenere la spesa sia pubblica sia privata. Data la debolezza della domanda e il basso livello dell’inflazione di fondo, il sostegno della politica monetaria è essenziale: dobbiamo evitare un inasprimento prematuro delle condizioni di finanziamento; vi è ancora un forte rischio di fornire uno stimolo monetario insufficiente.

Soltanto un aumento duraturo delle pressioni inflazionistiche, che innalzi l’inflazione di fondo e riporti l’inflazione effettiva e attesa in linea con il nostro obiettivo, potrebbe giustificare una riduzione degli acquisti di titoli. Ma non è questo il quadro che emerge dalle previsioni che abbiamo pubblicato a marzo. E da allora non ho visto miglioramenti nelle condizioni di finanziamento o nelle prospettive dell’economia in grado di innalzare il profilo dell’inflazione.

Al contrario, stiamo osservando ulteriori, indesiderabili aumenti dei tassi di mercato, dopo quelli registrati nei primi mesi dell’anno; le condizioni di finanziamento stanno diventando meno favorevoli. In un tale contesto, non sorprende che vi sia anche un apprezzamento persistente e non trascurabile del cambio dell’euro. Se proseguisse, una tale tendenza finirebbe inevitabilmente per indebolire le pressioni inflazionistiche.

Discuteremo le implicazioni di questi andamenti nella nostra riunione di giugno, soprattutto alla luce delle nuove proiezioni relative all’inflazione di medio termine.

Sarebbe molto difficile porre termine al PEPP entro la fine di marzo del 2022 come previsto?

Non sarebbe ragionevole formulare ora congetture su quello che faremo a marzo del 2022. Manca quasi un anno e in questo momento, dato l’elevato grado di incertezza, un anno è come un secolo.

Peraltro, non vi è un impegno incondizionato a porre fine agli acquisti in marzo. Il Consiglio direttivo ha stabilito che continueremo a effettuare acquisti netti di titoli nell’ambito del PEPP almeno sino alla fine di marzo del 2022, e in ogni caso finché non sarà conclusa la crisi legata al coronavirus. Il nostro obiettivo è stimolare l’economia in misura sufficiente per superare questa fase critica.

Verificheremo quale sarà lo stato dell’economia tra sei o nove mesi, quale sarà l’andamento dell’inflazione e delle aspettative di inflazione.

E comunque l’inflazione rimarrà ben al di sotto del nostro obiettivo anche dopo la fine della pandemia; dovremo quindi continuare a usare gli strumenti a nostra disposizione, per riportarla verso il 2 per cento. Abbiamo già fornito chiare indicazioni sull’andamento dei tassi ufficiali e sugli acquisti di titoli sia durante sia dopo il periodo pandemico (la cosiddetta forward guidance).

Klaas Knot ha suggerito di passare dalle misure di emergenza ad altre forme di sostegno convenzionali. Lei cosa ne pensa?

Le decisioni di aumentare o di diminuire il ritmo degli acquisti e di prolungare o meno il PEPP sono collegiali, e dipendono dallo stato dell’economia.

La rimozione delle misure di emergenza sarà possibile a fronte di una chiara evidenza circa la solidità della ripresa e l’emersione di pressioni inflazionistiche in grado di sollevare l’inflazione di fondo e di riportare l’inflazione effettiva e attesa in linea con il nostro obiettivo. Non mi sembra che le condizioni dell’economia giustifichino una riduzione degli acquisti; una discussione al riguardo sarebbe pertanto prematura. Le nostre decisioni non possono essere influenzate da narrative provenienti dall’estero. Devono essere guidate da dati convincenti sull’area dell’euro.

Dovremmo aspettare fino a settembre o ottobre?

Dovremo aspettare finché non vi sarà chiarezza sulle prospettive dell’economia e dell’inflazione e finché non avremo la certezza di poter assolvere il nostro mandato. Ciò richiederà di neutralizzare gli effetti della pandemia sull’inflazione e, successivamente, di proseguire la nostra azione di politica monetaria finché non riterremo che l’inflazione possa allinearsi al nostro obiettivo in un futuro non troppo distante. Ritengo ragionevole considerare un orizzonte di circa due anni per una convergenza dell’inflazione verso il nostro obiettivo.

Nei prossimi mesi deciderete se avviare un progetto formale per la possibile introduzione di un euro digitale. Perché serve un euro digitale? Abbiamo già molti strumenti a disposizione, Visa, Mastercard, Apple Pay, Google Pay...

Soprattutto per due motivi principali.

In primo luogo, osserviamo una crescente diffusione degli acquisti on-line e dei pagamenti con strumenti digitali. In prospettiva, queste tendenze ridurranno drasticamente l’uso del contante. Il contante è però lo strumento di pagamento emesso dalla banca centrale, il suo concreto legame con i cittadini. La disponibilità di una moneta sovrana esente da rischi è un bene pubblico e rappresenta da secoli un elemento costitutivo della politica monetaria. Dovremo garantire tale disponibilità anche in futuro.

In secondo luogo, occorre scongiurare il rischio che il nostro mercato dei pagamenti al dettaglio possa essere dominato da pochi operatori esteri che potrebbero sfuggire all’azione regolamentare e di sorveglianza delle autorità europee. Ciò potrebbe limitare il livello di concorrenza e la tutela dei dati, e persino minacciare la nostra sovranità monetaria e finanziaria.

L’introduzione di un euro digitale garantirebbe la privacy, amplierebbe le scelte a disposizione degli utenti, ridurrebbe i costi di transazione e stimolerebbe la digitalizzazione dell’economia, preservando al tempo stesso il ruolo centrale della moneta sovrana nel sistema finanziario. Stimolerebbe la concorrenza, consentendo agli operatori di offrire servizi avanzati incentrati sull’euro digitale.

Crede quindi che le grandi bigtech degli Stati Uniti siano una minaccia per l’Europa?

Alcune società estere dominano già oggi importanti segmenti del mercato europeo dei pagamenti al dettaglio. In futuro, le bigtech potrebbero acquisire anch’esse un ruolo molto significativo nel campo dei servizi finanziari, a danno della privacy, della concorrenza e dell’autonomia tecnologica. Come è già successo in altri settori.

L’introduzione di un euro digitale contribuirebbe a preservare la concorrenza e a stimolare l’innovazione, rafforzando l’autonomia e la capacità di tenuta finanziaria dell’Europa.

Ha parlato di un euro digitale che sarebbe sicuro e privo di rischi. Ma potrebbe anche risultare problematico. Quale ritiene che possa essere il suo impatto sull’attuale sistema bancario?

L’euro digitale offrirebbe ai cittadini uno strumento di pagamento privo di rischi, liquido. In mancanza di limiti al suo utilizzo come forma di investimento, esso potrebbe attrarre investimenti ingenti a danno dei depositi bancari. Ciò potrebbe aumentare i rischi di instabilità finanziaria, soprattutto nelle fasi di crisi.

Ma possiamo evitare tali rischi in due modi. Il primo è quello di imporre un limite all’ammontare di euro digitali che possono essere detenuti dai singoli utenti: ad esempio, non più di 3.000 euro. Si limiterebbero così i possibili deflussi di depositi bancari verso gli euro digitali. La seconda possibilità è quella di disincentivare la detenzione di importi ingenti di euro digitali applicando, oltre una certa soglia, rendimenti penalizzanti.

L’euro digitale rappresenterebbe quindi un efficiente mezzo di pagamento a disposizione dei cittadini, e non invece una forma di investimento. Ciò consentirebbe di evitare instabilità finanziaria e di preservare l’intermediazione finanziaria.

Sono previste restrizioni all’uso o alla detenzione di euro digitali al di fuori dell’area dell’euro?

Un euro digitale accessibile ai non residenti costituirebbe un mezzo di pagamento sicuro per le transazioni internazionali. Nelle economie emergenti più vulnerabili esso rappresenterebbe però anche una forma di investimento assai attraente. Se mal concepito, potrebbe favorire i deflussi di capitali e perfino spiazzare le valute locali, generando instabilità finanziaria. Sarà pertanto necessario definire precise condizioni di accesso e utilizzo da parte dei non residenti, al fine di evitare una eccessiva volatilità dei flussi di capitali o dei tassi di cambio. L’introduzione di limiti al possesso o di disincentivi alla detenzione di volumi eccessivi di euro digitali sono esempi attraverso cui conseguire tali obiettivi.

La cooperazione internazionale sulla progettazione, sull’uso transfrontaliero e sull’interoperabilità rappresenta la modalità con cui possiamo trarre ampi benefici dall’introduzione di valute digitali, contenendo al tempo stesso i rischi per il sistema finanziario globale.

La Cina introdurrà una valuta digitale della banca centrale entro il 2022 (il renminbi digitale). Potrebbe essere una minaccia per voi?

Le autorità cinesi hanno annunciato che il renminbi digitale sarà impiegato entro i confini nazionali e per i pagamenti al dettaglio. Il loro obiettivo è quello di preservare il ruolo della moneta sovrana nell’era digitale, anche in risposta all’espansione delle bigtech cinesi.

Nel più lungo periodo l’interoperabilità tra le valute digitali delle diverse banche centrali accrescerà i vantaggi per tutti, rendendo i pagamenti transfrontalieri più semplici, più efficienti e meno costosi.

La Cina non è quindi un vostro concorrente ma un partner?

Le banche centrali stanno collaborando a livello sia bilaterale sia multilaterale. Siamo in contatto con le banche centrali del Giappone, degli Stati Uniti, del Regno Unito, del Canada, della Svezia, della Svizzera e anche della Cina. Impariamo gli uni dagli altri, al fine di migliorare la nostra comprensione delle difficoltà insite nella progettazione di una moneta digitale della banca centrale.

Quando inizierete a emettere l’euro digitale?

Quando abbiamo avviato il progetto avevamo in mente un orizzonte di cinque anni. Un tale lasso temporale è probabilmente il minimo necessario per l’introduzione di un euro digitale. La Cina ha avviato il suo progetto otto anni fa, nel 2013. La Svezia nel 2017, e ha recentemente ventilato la possibilità di introdurre la corona digitale nel 2026. Queste esperienze confermano che la progettazione e l’emissione di una valuta digitale richiede tempo.

Vuol dire che potremmo avere un euro digitale nel 2026?

Certamente non prima. Ma non dobbiamo avere l’ansia di arrivare primi. Non è una gara. Non possiamo correre il rischio di introdurre una valuta digitale che non soddisfi le esigenze degli utenti o che generi instabilità, da noi o all’estero. È una decisione di grande importanza. Se decideremo di introdurre una valuta digitale della banca centrale, lo faremo nel modo giusto.

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